Tornano in auge i panieri dedicati alle aziende italiane dopo un 2019 horribilis. Vi spieghiamo perché in realtà, anche con le modifiche apportate per il 2020, essi coprono solo una nicchia piccolissima delle nostre industrie. Per questo auspichiamo presto una versione FinTech add
Dopo un anno di blocco, tornano in auge i PIR. Pur apprezzando nel merito il tentativo di dare vita a uno strumento di investimento che aiutasse l’economia reale, BorsadelCredito.it da sempre ne sottolinea i limiti (ne abbiamo parlato qui).
Ancora auspichiamo che qualcosa possa cambiare, anche se il tentativo di trasformare i panieri allargandoli a titoli diversi da quelli quotati (segnatamente il Venture Capital) si è rivelato fallimentare nel 2019. La strada, con ogni probabilità, non è quella giusta e vorremmo provare a dare il nostro punto di vista. Prima però facciamo un passo indietro e riassumiamo l’oggetto di cui parliamo.
Cosa sono i PIR
I Piani Individuali di Risparmio sono portafogli lanciati nel 2017 per convogliare l’enorme capacità di risparmio delle famiglie italiane nelle PMI, che costituiscono l’ossatura della nostra economia. Dunque, il 70% di questi portafogli doveva essere costituito, fin dalla formulazione originale, da titoli azionari o obbligazionari, quotati o non quotati, di aziende italiane e di questa quota il 30% doveva essere destinato a società fuori dal Ftse/Mib. È vero che teoricamente il fondo può investire in società non quotate ma, pur avendo il vincolo di destinare un 21% del paniere ai titoli fuori dal Ftse/Mib, era prevedibile – come infatti è stato successo – che si limitasse alle azioni o ai bond più liquidi (parliamo cioè di quelli emessi da società comunque quotate su STAR o sul listino delle Mid Cap e in parte su AIM). Ovvero 380 aziende sulle oltre 5,3 milioni di PMI italiane che conta Prometeia.
Le novità 2020
Se nel 2019 la finanziaria aveva disegnato i PIR 2.0 con l’introduzione di due nuovi obblighi (ovvero il 3,5% destinato al Venture Capital e una quota pari ad AIM), nel 2020 è di nuovo cambiato tutto. L’ultima normativa prevede sostanzialmente tre novità: la prima è l’obbligo di investire il 3,5% del paniere totale in titoli fuori da Ftse Mib e Ftse Mid; la seconda è l’abrogazione della quota destinata al Venture Capital; la terza l’eliminazione del vincoloche prevedeva per i fondi pensione il limite di investire in un solo PIR con un massimo del 10% del patrimonio totale. Le case di affari hanno tirato un sospiro di sollievo soprattutto per l’eliminazione del Venture Capital, sul quale, trattandosi di un asset illiquida e per cui non esiste un Nav da monitorare, c’era una difficoltà a comporre panieri Ucits compliant. Il mercato, che tra il 2017 e il 2018 aveva raccolto 15 miliardi di euro e che nel 2019 ne aveva perso poco meno di uno, si è rimesso in marcia e per l’anno le stime sono di una raccolta tra i 2 e i 3 miliardi.
Uno strumento monco
Resta invariato il beneficio fiscale – la totale esenzione dalle tasse se lo strumento viene detenuto per almeno cinque anni – che è un importante catalizzatore di domanda.
Mentre si consumava questa vicenda, nel Regno Unito gli IFISA – la versione degli Isa (i Pir britannici) con il Fintech – prendevano il volo, passando dai 36 milioni di sterline a fine 2016 a 290 milioni a fine 2018 (dati HMRC, il dipartimento governativo britannico responsabile per la riscossione delle imposte), con un importo medio a 9.355 da 7.200 sterline (circa +30%) e prospettive di crescita ancora più interessanti.
Prospettive
In questi tre anni è stato detto tutto e il contrario di tutto. Che i PIR avrebbero salvato le piccole e medie imprese italiane; che all’estremo opposto l’universo investibile non era abbastanza ampio da garantire capienza; che nell’attuazione i punti bui erano tanti e tali da far rischiare all’investitore di perdere il beneficio fiscale; che lo stesso venisse eroso da commissioni troppo elevate per una ricerca sottostante troppo costosa in proporzione alla dimensione delle imprese investite. Dell’esclusione forzata delle PMI consolidate – micro e piccole, già fuori dai radar delle banche e dalla Borsa e che sono il cliente privilegiato del P2P lending – invece si è parlato poco o nulla. Probabilmente, guardando indietro, dei FinTech PIR non funzionerebbero e potrebbe ripetersi quanto accaduto con il tentativo di far entrare il Venture Capital nei panieri.
Ma certamente, considerato il sottosviluppo della Borsa e i costi elevati della ricerca per le Sgr su società poco investite, i tempi paiono maturi per pensare a strumenti simil–PIR dedicati a questa fetta enorme della produzione a oggi fuori dai giochi. Che è anche la parte più debole della nostra industria, quella che fatica di più a trovare canali di finanziamento e quella a cui il piccolo risparmiatore italiano potrebbe ridare gas, con vantaggi per tutti.
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