28 novembre, 2022

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Scritto da: Redazione Opyn

Le imprese italiane sono creative ma poco organizzate. Ecco cosa si può migliorare


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Da più di due secoli gli italiani hanno dimostrato di essere maestri di creatività nel campo imprenditoriale. E lo hanno fatto nei settori più disparati. Tuttavia, le aziende che nascono sono, in media, poco strutturate. La maggior parte di esse non super mai lo stato di “microimpresa” e rimane interamente (o quasi) a conduzione familiare. Ecco cosa si potrebbe fare per cambiare la situazione

Le imprese italiane vivono da sempre una profonda contraddizione. Sono estremamente innovative e tecnologicamente all’avanguardia, spesso per effetto di un unico capitano geniale che le fonda e le fa crescere, ma allo stesso tempo, sono, in media, poco strutturate. Infatti, per il 99% restano nella dimensione di micro imprese (con meno di 10 dipendenti ed entro i 2 milioni di fatturato) e per l’85% interamente (o quasi) in mano alla famiglia fondatrice.

Negli anni del Dopo Guerra, il modello più comune era l’azienda meccanica che nasceva intorno al nucleo di un laboratorio fatto in casa dall’operaio, che aveva rubato il mestiere lavorando sulla linea ma aveva avuto un’idea migliorativa unica del processo o del prodotto. Oggi è la startup avviata dal neolaureato che ha la capacità di pensare out of the box nel suo bilocale di provincia. Ma il concetto resta lo stesso: si tratta sempre di piccole o micro aziende, spesso poco strutturate, in qualche caso capaci di creare da zero un mercato o di rivoluzionarlo.

Le imprese italiane hanno una creatività “secolare”

Che gli italiani siano, in campo imprenditoriale, maestri di creatività, lo dice la storia. Sono italiani, ad esempio, la pila di Alessandro Volta (1799) e il primo telefono, il “telettrofono” di Antonio Meucci brevettato nel 1871. Allo stesso modo, le prime trasmissioni radio (che valsero a Guglielmo Marconi il premio Nobel per la fisica nel 1909) sono frutto del genio italiano.

Nella seconda metà degli anni ’40 l’Italia fu pioniera dell’industria degli elettrodomestici, con Candy a trainare il mercato. Inoltre, inventò modelli di business dirompenti: dalla GDO portata sul mercato da Esselunga, alla Ferrero, a Finmeccanica (entrambe fondate nel 1948).

Negli anni Cinquanta poi la creatività italiana ha dato vita al sistema moda che è ancora un’eccellenza globale. E successivamente, nel 1963 il chimico Giuseppe Natta ha brevetto la plastica Moplen, il primo super materiale. Solo un anno dopo, Giorgio Perotto alla corte di Olivetti ha costruito il primo personal computer, la Programma 101, poi lanciato sul mercato a livello globale.

E ancora, l’Italia è stata antesignana della digitalizzazione. Negli anni ’90 è apparso Vitaminic, social che ospitava cantanti emergenti, in anticipo di dieci anni sui suoi tempi. Successivamente è arrivato Yoox, il primo unicorno domestico, che da startup ha raggiunto il miliardo di euro di valorizzazione e ha iniziato a vendere fashion online nel 2000 e oggi è confluita nel gruppo Richemont. Un ulteriore esempio è Satispay, entrata nel radar del colosso cinese Tencent con il suo sistema di Pos alternativo a quello bancario.

Perché l’ecosistema industriale non decolla: il tema della scarsa organizzazione

Perché se siamo tra i più creativi al mondo, il nostro sistema produttivo continua a essere dominato da piccole e piccolissime aziende e non riesce a creare campioni europei?

La risposta sta in due elementi:

  • il sottosviluppo dei finanziamenti per la crescita. In Italia, secondo il report di EY Venture Capital Barometer, per la prima volta nel 2021 si è superato il miliardo di capitali complessivamente confluiti sulle startup: 243 milioni di euro, +118% rispetto al 2020. Numeri infinitamente più piccoli di quelli europei, per non dire mondiali: secondo i dati di Cb Insights, il Venture Capital del Regno Unito vale 29 miliardi di dollari, seguito da Germania (17,5 miliardi) e Francia (12,2 miliardi). Si tratta di un mercato globale che vale 620,8 miliardi di dollari, ed è più che raddoppiato nel 2021 rispetto al 2020.

  • la mancanza di cultura imprenditoriale. Ancora oggi, molto spesso, le imprese sono chiuse in un sistema padronale che impedisce loro di uscire da un’operatività di tipo artigianale. Il capitalismo familiare generalmente non si affida a management professionale, né a capitali terzi, dai minibond alla Borsa, per finanziare crescita e internazionalizzazione. Inoltre, spesso si caratterizza per una pianificazione finanziaria non sempre lucida; un’informativa aziendale talvolta non aggiornata o completa; la presenza di “eventi negativi” dovuti a protesti, fallimenti o segnalazioni in Centrale Rischi. Tutto questo è inevitabile se è il piccolo imprenditore-factotum a ricoprire tutti i ruoli cruciali.

Diffondere la cultura di una buona organizzazione nelle imprese italiane – anche quelle più piccole – equivale a dare futuro alle molte idee brillanti che vengono prodotte nel nostro Paese.

Unire la creatività, il genio e l’attitudine innovativa a capacità di gestione e pianificazione finanziaria è anche il modo per attrarre finanziamenti nuovi e sempre più cospicui. Sovvenzioni che vanno ad alimentare la crescita e la conquista di nuovi mercati geografici o settoriali. È, insomma, la via da perseguire per aumentare la competitività delle nostre imprese. E in definitiva, del Paese.

 

 

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