Storia di Microtech, sogno realizzato di un maestro siciliano a Milano, che oggi fattura 3 milioni e punta ai 10 nel 2019
Ci vuole un umanista per dare vita al tablet perfetto. Potrebbe intitolarsi così, se fosse un film, la storia di Fabio Rifici, quarantenne messinese, ex maestro di italiano in una scuola primaria di Milano che un giorno ha deciso di fare concorrenza a Steve Jobs con la sua Microtech, piccola azienda che produce tablet e notebook di design a prezzi democratici e che ha chiuso il 2017 con un fatturato di 3 milioni, tenendo a mente l’obiettivo dei 10 milioni entro un biennio. Ma ciò che colpisce della storia di questo gioiellino dell’industria nostrana è la sua origine. “Tutto ha inizio nel 1999 quando, con il mio diploma magistrale, ho vinto un concorso che mi abilitava all’insegnamento. Numero delle cattedre disponibili: nessuna. Avevo 23 anni e residenza in provincia di Messina, ma per fortuna, seguendo un buon consiglio, avevo concorso su Milano. Così, presi armi e bagagli e mi diressi all’ombra della Madonnina, per iniziare da subito a fare supplenze.”
Una classica storia italiana, di un ragazzo che se ne deve andare dal Sud per lavorare. Ma a un certo punto succede qualcosa di straordinario: ce lo racconta?
Ero uno smanettone e l’informatica mi affascinava. La dirigente scolastica intercettò questa mia inclinazione e mi diede la possibilità di specializzarmi tramite i percorsi dell’Aica (Associazione italiana per il calcolo numerico) e quelli dedicati ai docenti di Microsoft. Nel corso del tempo questa passione è venuta fuori prepotentemente e ho deciso di trasformala in un lavoro: mentre facevo supplenze avevo aperto una partiva Iva per fare il consulente tecnologico informatico per la scuola dove insegnavo, che allora era il mio unico cliente. Allestivo la rete informatica, costruivo i laboratori e mi occupavo di formazione per altri insegnanti e per il personale non docente. Con il passaparola le scuole sono diventate due, tre, dieci. E a quel punto avevo bisogno di collaboratori ma avevo paura di non riuscire a pagarli. Trovai un socio in un collega. Poi ho assunto una segretaria, un ingegnere, un direttore commerciale, un area manager, siamo cresciuti e ho lasciato la scuola. Era il 2007, nasceva Microtech, mentre un giovane Steve Jobs presentava il primo iPhone della storia, uno strumento che all’epoca era a metà strada tra scienza e stregoneria.
Un salto nel buio. Aveva chiaro in mente cosa voleva fare?
Non del tutto. Ma per uno che aveva iniziato solo con una calcolatrice, pure in prestito, era davvero già un successo inatteso. Mentre sognavo la Silicon Valley, continuavo a lavorare con la PA fino ad accorgermi a inizio 2015 che il regime di split payment ci stava massacrando. E dunque decisi di virare sui distributori privati. Nel frattempo, nel 2010, Jobs aveva presentato l’iPad, un oggetto tanto affascinante quanto inutile: a che serviva un nuovo device con le stesse funzioni dell’IPhone, solo più grande? Magari poteva aiutare le persone avanti negli anni e poco avvezze alle tecnologie a leggere la posta, i giornali. Insomma, avrei voluto inventarlo io! Ma mi mancavano gli elementi: uno su tutti la statura finanziaria, ma anche i mezzi di produzione, le fabbriche e mi mancavano le sinergie con gli altri attori protagonisti di questo settore ovvero coloro che fanno sistemi operativi e applicazioni. Avevo una sola cosa e sono partito da quella: la mia volontà. Mi misi in testa di proporre un sistema alternativo all’iPad, con un sistema operativo più diffuso e a un prezzo più basso.
Anche le ambizioni non le mancavano.
Non mi mancò neppure una buona idea: tornai da Microsoft (oggi uno dei principali partner di Microtech, insieme a Intel, ndr) dove mi ero formato anni prima e fui catapultato in un mondo di possibilità che non conoscevo. Ma scoprii allo stesso tempo che la produzione dei device informatici era tutta in Asia e poiché volevo toccare con mano questo mondo per me nuovo, presi un aereo e volai in Cina. Conobbi persone, presi abbagli e imparai sulla mia pelle: così riuscii a costruire passo dopo passo una rete di fornitori. Nel 2013 ho realizzato il mio primo e-tab targato Microtech.
Ce l’aveva fatta…
Al contrario: fu un insuccesso clamoroso. Ne avevo prodotti pochi e ne vendetti ancora meno, ma tutti erano difettosi. Imparai una lezione fondamentale: che non bastava fare il prodotto ma bisognava supportarlo con servizi post vendita, aggiornamenti dei software, faq, rete di vendita. Avevo compreso come si sta sul mercato. Nel 2013 fatturavamo 470mila euro; nel 2014 introducendo due modelli nuovi, vendemmo 4mila pezzi nel giro di sei mesi triplicando il giro di affari a 1,5 milioni. Negli anni successivi abbiamo sempre raddoppiato il volume e il 2017 si è chiuso con 3 milioni di euro, mentre puntiamo ad archiviare il 2018 a 6 milioni e a superare i 10 nel 2019.
Abbiamo 14 dipendenti e una rete di agenti che vendono i prodotti a 9 grossi distributori IT. Offriamo un servizio unico sul mercato: ritiro e riconsegna a casa totalmente gratuiti del device riparato. E non ci siamo fermati al tablet: l’8 febbraio scorso abbiamo presentato l’ultrabook, un notebook ultraportatile che nel punto più spesso misura 2,9 mm e che pesa 1,3 chili, dunque è più sottile e più leggero del MacBook Air. Ne facciamo produrre in Asia mille pezzi al mese per avere uno stock minimo a disposizione: i primi sono andati sold out in dieci giorni e la cosa ha sorpreso anche noi.
Un successo che dipende da cosa, secondo il suo parere?
Dall’applicazione del metodo scientifico alla creazione dell’impresa, che ha preso vita per prove ed errori in un ambiente controllato, così che gli errori non si siano ripercossi sui conti in maniera insopportabile. Ma soprattutto dal fatto che i nostri prodotti, costruiti sì in Asia per forza di cose, perché i display sono tutti coreani o giapponesi, le memorie flash coreane o taiwanesi, l’assemblaggio cinese, sono in realtà orientati al design italiano, con un gusto nostro irripetibile che raccoglie un’eredità che passa da Brunelleschi a Leonardo e arriva ai giorni nostri con artisti meravigliosi. Abbiamo cercato di utilizzare questa dotazione genetica e di incrociarla con la tecnologia e questo ci sta premiando.
Ecco che torna fuori l’umanista che è in lei. In realtà, lei è la dimostrazione pratica di quello che inizia a essere un pensiero mainstream, manifestato anche nel corso del World Economic Forum, a Davos a fine gennaio. Il direttore generale del Cern Fabiola Gianotti, parlando di formazione e della necessità di incentivare lo studio delle discipline Stem ha detto che «la musica è altrettanto importante: dobbiamo rompere i silos culturali, scienze e arti sono le massime espressioni della curiosità e della creatività umana». Cosa ne pensa?
Le rispondo con le parole dell’astronauta siciliano Luca Parmitano, il primo italiano protagonista di una passeggiata extraveicolare a bordo della stazione spaziale internazionale nel 2013. “Ci vorrebbe un poeta o uno scrittore per descrivere quello che si vede e si sente (nel cuore) dallo spazio.” Perché la missione sia compiuta non basta un ingegnere, un meccanico, uno scienziato. Ci vuole altro, ci vuole tutto. Spesso lo sguardo di un outsider è il quid che davvero cambia le cose. Steve Jobs stesso non era un informatico. Eppure è l’uomo che ha rivoluzionato l’informatica.
Ci vuole tutto e ci vuole – torniamo a temi più prosaici – anche una struttura finanziaria, lo diceva lei stesso qualche risposta più su. A tal proposito come ha incontrato BorsadelCredito.it?
Mi sono trovato in una situazione strana: quando si cresce troppo velocemente questa cosa è mal vista dalle banche, perché se oggi fatturo un milione e domani due devo comprare di più per vedere di più e la banca dovrebbe finanziarmi in maniera adeguata alle nuove esigenze di business: poiché però eroga credito basandosi su un bilancio vecchio di un anno, in realtà non lo fa. Ma un imprenditore vive di tempistiche. Se un cliente mi dice che acquista uno stock di merce che gli venga consegnata entro due mesi, io per consegnarla devo produrla e devo avere i soldi per pagare chi lavora per me. Se la banca impiega 5 mesi a erogare credito, si rende necessario fare ricorso a strumenti alternativi e con un funzionamento diverso. BorsadelCredito.it ci è stata presentata da uno dei nostri consulenti finanziari. Ho girato loro qualche documento, fatto un’intervista di tre ore con un loro analista e due giorni dopo avevo i soldi sul conto. BorsadelCredito.it colma un vuoto che le banche hanno lasciato aperto: ed è un bene perché il sistema delle imprese ha bisogno di questo genere di interlocutore quando è meritevole.
Cosa farete con questi finanziamenti che si sono dimostrati adeguati alle tempistiche richieste?
Svilupperemo nuovi prodotti. Stiamo chiudendo un accordo con un fornitore cinese per fare uno smartwatch con due sensori: lettore di gas (per funzioni come etilometro, qualità aria, etc) e ECG (con trasmissione dei dati direttamente al dottore). Stiamo anche stilando un altro accordo con il distributore cinese Voyo per essere agenti esclusivi in Italia dei loro prodotti. Continueremo a spingere sulla rete commerciale con la nascita di una rete di affiliazione. Conservando sempre negli occhi lo sguardo teso alla bellezza dell’umanista.
Condividi