10 gennaio, 2017

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Scritto da: Redazione Opyn

Giancarlo Giudici (Polimi): “I vantaggi fiscali dei PIR anche al social lending”

Secondo il professore esperto di crowd-investing, la sperequazione fiscale resta il tallone d’Achille del settore. Rimuoverla è il primo passo dello sviluppo possibile

A inizio novembre è stata aggiornata la sezione IX della Circolare 229/99, che disciplina l’attività delle forme di investimento diverse dalla raccolta del risparmio. In particolare, è stata introdotta la definizione di social lending come “trattativa personalizzata tra prenditore e prestatore, in cui i due soggetti hanno capacità di incidere sulle caratteristiche del contratto”.

Un evento quasi epocale – non fosse altro perché rappresenta un riconoscimento dell’esistenza di questo settore appena nascente nel nostro Paese, ma con tanta voglia di diventare grande. Il regolamento di Bankitalia riconosce dunque l’esistenza del fenomeno, ma cosa cambia nella pratica? “Penso che la novità principale sia proprio l’avere ‘istituzionalizzato’ il social lending come uno strumento attraverso il quale una pluralità di soggetti può richiedere a una pluralità di potenziali finanziatori, tramite piattaforme on-line, fondi rimborsabili per uso personale o per finanziare un progetto”, risponde Giancarlo Giudici, professore di Finanza Aziendale e direttore dell’Osservatorio Crowdinvesting del Politecnico di Milano, uno dei massimi esperti italiani di finanza alternativa.

Dunque rispetto al passato dovrebbe essere più semplice entrare nel mercato per le piattaforme di p2p, che quantomeno sono riconosciute dalla Banca centrale come facilitatori di queste trattative personalizzate. “Sicuramente – continua Giudici – ora il quadro è più chiaro e non dovrebbero verificarsi le grosse difficoltà incontrate dalle prime piattaforme arrivate in Italia nei rapporti con la Banca d’Italia”.

Inciampi come quello in cui incorse Zopa, nel 2009, a un anno dall’inizio dell’attività: un decreto del ministero dell’Economia, su indicazione di Banca d’Italia, sospese l’attività di quello che era il primo esperimento italiano nel social lending. La società fu accusata “di aver fatto raccolta del risparmio (e non semplice intermediazione di pagamenti) a causa della giacenza sul Conto Prestatori Zopa del denaro in attesa di uscire in prestito” e cancellata dall’elenco degli intermediari finanziari (la storia si può leggere qui).

Oltre a offrirne una definizione precisa, Bankitalia nella sezione dedicata al social lending conferma un limite all’investimento per il privato (per BorsadelCredito.it è stato quantificato finora in 50mila euro) che ha frenato un vero sviluppo del mercato. Secondo Giudici questo vincolo non rappresenta però un limite, ma “va nella direzione di qualificare il mercato nella sua dimensione ‘social’, ovvero diffusa. Mentre è un vincolo e un oggettivo elemento di non equità rispetto ad altre forme di investimento il trattamento fiscale”. Il rendimento del social lending attualmente, vale la pena ricordarlo, è ad aliquota marginale sul reddito e varia tra il 23% per i redditi sotto i 15mila euro al 43% per quelli sopra i 75mila. La mia proposta – dice ancora Giudici – è quella di estendere anche al social lending (io preferisco non usare il termine p2p perché è fuorviante: il modello attuale delle piattaforme nulla ha a che fare con p2p) i vantaggi dei PIR (piani individuali di risparmio) introdotti dalla Legge di Stabilità 2017. Chi investe nei PIR, a patto di tenerli in portafoglio per cinque anni e rispettare i diversi vincoli (tra cui quello di investire una fetta maggioritaria – il 70% in aziende italiane, di cui il 30% devono essere fuori dal Ftse/Mib; e di non avere quote superiori al 10% in ogni singolo strumento), ha diritto all’esenzione dalla tassazione per 30mila euro all’anno”.

Dunque, il regolamento di Bankitalia, da solo non basta. E cosa si dovrebbe fare per dare gas a quella che, comunque la si pensi, è un’innovazione necessaria e inarrestabile? Certamente – conclude il professore del Politecnico di Milano – occorre una normativa ad hoc che chiarisca alcuni punti ambigui (ad esempio la caratteristica di ‘non abitualità’ del prestito). Ma non basta l’intervento legislativo. Ci vuole molto altro. Per esempio, un codice di autodisciplina delle piattaforme che renda uniforme il linguaggio, le definizioni e le statistiche utilizzate, per una maggiore trasparenza sul rischio dell’investimento. Infine, una maggiore educazione finanziaria che faccia capire agli italiani di ogni generazione rischi e opportunità del crowd-investing”.

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