13 dicembre, 2016

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Scritto da: Redazione Opyn

Leggi chiare, tassazione equa e buone pratiche dalle piattaforme: ecco le tre regole per far crescere il p2p lending

Le rivela Giancarlo Giudici, professore del Politecnico di Milano e direttore dell’Osservatorio sul crowdfunding, che ci ha spiegato cosa servirebbe per dare una spinta al settore

Vale 32 milioni di euro e cresce del 300% all’anno: ma quali sono i possibili sviluppi del social lending italiano, sia in termini di volume che in tipologia di servizi e prodotti? Lo abbiamo chiesto a Giancarlo Giudici, professore di Finanza Aziendale e direttore dell’Osservatorio Crowdinvesting del Politecnico di Milano, uno dei massimi esperti italiani di finanza alternativa.

Il mercato italiano ha un valore infimo rispetto a quello degli altri Paesi Ue: Francia e Germania muovono, rispettivamente, otto volte e dieci volte di più, per non dire del Regno Unito dove l’ordine di grandezza sono i miliardi. I tassi crescita sono esponenziali: come si evolverà il marketplace lending made in Italy nel prossimo futuro secondo la sua visione?

Tassi di crescita così elevati sono ‘normali’ per un’industria che nasce praticamente da zero. Il vero limite è che attualmente i prestatori in Italia sono solo poche migliaia e sono per la totalità privati.

Le prospettive di sviluppo sono interessanti e potranno concretizzarsi solo se aumenterà l’interesse sia da parte della ‘folla’ di Internet sia da parte degli investitori istituzionali, che possono trovare nel marketplace lending una significativa opportunità di diversificazione del portafoglio, con rendimenti non trascurabili.

Quali leve bisognerebbe forzare perché questa evoluzione si concretizzi?

Perché si abbia questo sviluppo sono necessarie tre cose: un chiaro assetto regolamentare che elimini ogni ambiguità rispetto a chi può offrire credito attraverso Internet; l’adozione di buone pratiche omogenee da parte delle piattaforme sulle informazioni da veicolare agli investitori, in primis rispetto alle insolvenze; un regime fiscale più favorevole, o quantomeno allineato a quello delle altre rendite finanziarie. Gli interventi devono provenire sia dalle istituzioni, sia dagli operatori.

Le start-up italiane del marketplace lending sono otto, e almeno un paio debutteranno a stretto giro: tra prestiti alle persone, invoice trading e prestiti alle imprese. Quali sono le principali caratteristiche e le differenze?

In effetti la vivacità del settore è testimoniata dall’arrivo sul mercato di diverse startup, che sono riuscite a raccogliere capitale da fondi di venture capital e business angels. Si tratta di una tendenza generale nel mondo del cosiddetto ‘fintech’, ovvero la finanza declinata attraverso le nuove tecnologie digitali. I grossi player esteri per ora stanno a guardare; pensano che l’Italia sia un mercato interessante ma solo ora stanno cominciando concretamente ad interessarsi, mentre alcuni (vedi i francesi) sono già operativi.

I player presenti nel mondo del lending devono qualificarsi come intermediari finanziari oppure come istituti di pagamento, e sono soggetti alla vigilanza della Banca d’Italia. Quelli attivi nell’invoice trading non sono soggetti ad alcuna autorizzazione particolare.

Quale ritiene che sia il sub-settore più interessante e perché?

I segmenti più interessanti sono quelli che si rivolgono alle PMI, perché in quell’ambito è più evidente la necessità di reperire forme di finanziamento alternative rispetto al circuito bancario.

In Europa, le banche si sono accorte di questo fenomeno e ci sono casi di cooperazione con le società di P2P lending (vedi Rbs e Santander). Qual è l’atteggiamento degli istituti di credito italiani verso queste novità? Temono la concorrenza di un modello snello ed efficace, vista anche la farraginosità dei loro processi e modelli distributivi, le guardano con interesse o le ignorano del tutto?

Le banche italiane in questo momento hanno problemi ben più pressanti, ma sono ovviamente attente all’evoluzione del mercato. Però i volumi attuali del crowdinvesting non sono certamente tali da impensierirle. Le piattaforme sono generalmente più veloci nelle loro decisioni rispetto alle banche e quindi possono ‘rubare’ clienti e quote di mercato, in prospettiva. Però il profilo tipico delle persone e delle imprese finanziate dalle piattaforme non rientra propriamente nel target delle banche, per le quali oggi è diventato molto costoso prestare denaro in termini di assorbimento di capitale.

Non si può escludere quindi che anche in Italia si possano avviare cooperazioni soprattutto sulla tecnologia e sulla misurazione dei rischi di credito. Le banche hanno a disposizione molti dati ma non sempre riescono a processarli con efficienza ed efficacia.