20 dicembre, 2017

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Scritto da: Redazione Opyn

Perché i PIR hanno bisogno del Fintech

Cosa sono i PIR? Piani individuali di risparmio, lanciati in Italia a inizio 2017: panieri di investimento che, almeno sulla carta, puntano sull’economia reale. Da inizio anno hanno raccolto, secondo le stime, 10 miliardi di euro, compiendo il percorso atteso per un quinquennio. Un vero e proprio boom, che dovrebbe far riflettere e che rafforza in noi l’idea che siano monchi, se non accolgono al loro interno forme di investimento alternativo come il P2P lending, cosa che peraltro avviene in mercati più evoluti come quello del Regno Unito. Proviamo a spiegarvi perché è così, dal nostro punto di vista. E lo facciamo dalla stessa definizione di PIR.

I PIR sono panieri che devono contenere al loro interno strumenti finanziari (azioni o obbligazioni) quotati o non quotati emessi da società italiane o con stabile organizzazione in Italia, quotate o non, per almeno il 70%. Di questo 70% un 30% deve essere composto da aziende non quotate su Fase/MIB. Se si va analizzare la composizione dei PIR oggi in circolazione sul mercato si noterà che la maggior parte di questo 30% è fatto da società dello Star e che non rientrano nell’investimento neppure le piccolissime di AIM, il listino alternativo di Borsa Italiana. Un’analisi di questo tipo l’ha compiuta, per esempio, la boutique di consulenza indipendente Consultique.

Un risultato abbastanza prevedibile: sulle società di AIM non esiste ricerca e la dimensione è troppo piccola perché sia conveniente che le SGR facciano analisi. A maggior ragione questo vale per tutto l’universo delle PMI italiane che è fuori dal listino: ovvero la stragrande maggioranza dell’economia reale.

Le micro e piccole aziende italiane sono più di 4 milioni e ammontano a oltre il 95% del nostro tessuto industriale. Le società quotate in Italia sono appena 380, in un mercato estremamente rarefatto. Piazza Affari capitalizza l’1% sul mondo, una briciola e, secondo Kpmg, vale il 35% del Pil italiano, contro il 51% della Germania, il 66% della Spagna e l’86% della Francia. Cioè non rappresenta il tessuto economico sottostante da nessun punto di vista: né da quello dei volumi, né da quello settoriale, con le banche che occupano il 30% del Ftse/Mib. Dunque, di fatto i PIR investono su una piccolissima parte, neppure rappresentativa, dell’economia reale. Allargando l’universo di investimento al P2P lending – che è anch’esso piccolissimo ma cresce a ritmi esponenziali – il quadro cambia significativamente.

Nel Regno Unito, ad aprile 2016, sono nati gli IFISA, ad ampliare il raggio d’azione degli ISA (Individual Savings Account): gli IFISA investono in finanza innovativa e offrono l’esenzione fiscale prevista per gli ISA. In particolare gli IFISA (Innovative Finance Savings Account), prevedono l’esenzione fiscale su investimenti fino a 20mila euro. L’investitore può trasferire nell’IFISA – ovvero, di fatto, in P2P lending – la quantità di denaro che desidera prelevandola dal tradizionale Isa, senza pagare commissioni extra. Investire in IFISA è lo stesso che andare direttamente sul P2P lending, dal punto di vista delle fee. Ma offre il grande vantaggio di essere tax free.

Anche i PIR, ne abbiamo parlato diffusamente (vedi qui), offrono un’esenzione fiscale totale, su 30mila euro annui per cinque anni, a patto di detenerli per almeno un quinquennio. Estendere l’universo investibile al P2P lending significherebbe anche fare giustizia dell’incredibile sperequazione di tassazione a cui oggi è soggetto il rendimento che ottengono gli investitori in P2P lending (che viene tassato ad aliquota marginale sul reddito, dal 23 al 43%). Insomma, senza Fintech, i PIR italiani non centreranno il bersaglio per cui sono stati creati o, peggio ancora, resteranno il solito salvagente per le foche.

Per fortuna, qualcosa si muove. Lo dimostra il fatto che, qualche settimana fa, siamo andati in Audizione in Commissione Finanze alla Camera dei Deputati nell’ambito dell’indagine conoscitiva sull’impatto della tecnologia nel settore finanziario, creditizio e assicurativo e ci siamo raccontati. E abbiamo avuto modo di affrontare anche questo che per noi è un cavallo di battaglia (qui gli interventi alla Camera). “Sicuramente la tassazione per chi investe in questo prodotto – ha detto il nostro COO Antonio Lafiosca in Commissione – non aiuta a veicolare l’immenso patrimonio del risparmiatore italiano verso le nostre aziende. Come si risolve? Il Regno Unito ci dà degli spunti: in UK c’è una zona tax free per chi investe in ISA in queste piattaforme. In un Paese in cui in questo settore sono stati erogati miliardi di sterline. Un altro aspetto su cui si può lavorare è convogliare gli istituzionali su queste piattaforme, incentivandoli nell’investire. Parlo di soggetti sia privati sia pubblici: in Francia e ancora in UK c’è un affiancamento normale da parte di enti governativi o agevolazioni fiscali che hanno consentito per esempio alle assicurazioni di investire massicciamente sulle piattaforme di P2P lending.” E chissà che non saremo finalmente ascoltati.

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